Si trova sul promontorio che separa la spiaggia del Frugoso da cala delle Alghe, in località Cavo. Da esso si ha un bello scorcio panoramico sul paese marittimo. Di fronte, sul lato nord, si trova il suggestivo isolotto dei Topi.
Oggi la punta è occupata da case e villette, in mezzo a selvaggia macchia e giardini, tanto che il sito archeologico si può dire ormai all'interno del centro urbano di Cavo. L'area stata irrimediabilmente compromessa dalla costruzione di villette, l'apertura di una strada e interventi recenti. Cosa che la rende difficilmente leggibile.
Il sito è in proprietà privata, e quindi non visitabile, per quanto l'assenza di scavi sistematici e i gi accennati interventi moderni, non lascino molto da vedere. Tuttavia resti di muri in opus reticulatum si possono scorgere al termine del tratto di strada pubblica che sale alla sommità del capo.
La pianta della villa era un rettangolo con orientamento est-ovest. La lunghezza è di 88 metri, la larghezza di 44. Era disposta su sei terrazze digradanti. Su quella più elevata sorgeva il nucleo abitativo. Di esso rimane poco, dato che in tempi moderni vi è stato costruito sopra l'edificio moderno che ancor oggi si vede. Uniche tracce antiche sono sul lato sud: resti del muro perimetrale in opus reticulatum e, all'esterno di esso, una cisterna in opus signinum.
Le due terrazze sottostanti mettevano in collegamento la terrazza più alta con la quarta, e ospitavano l'hortus. Infatti in esse mancano strutture murarie interne. I muri perimetrali sono anch'essi in opus reticulatum.
Sula quarta terrazza sorgeva il nucleo della domus. In essa infatti si notano i resti di sette vani: tre di essi conservano ancora i pavimenti in mosaico e un altro i resti di una scala. I muri sono tutti in opus reticulatum, tranne un tratto in opus spicatum. Purtroppo questa parte è in gran parte difficilmente leggibile per i danneggiamenti causati da strutture moderne e l'apertura di strade e vialetti.
Delle ultime due terrazze, in gran parte interrate, si riconoscono solo i muri perimetrali in opus reticulatum e una cisterna in opus signinum.
I reperti rinvenuti nella villa sono scarsi e di modesto pregio. Tra essi vanno citati: un frammento di capitello di lesena in marmo ornato da foglie d'acanto, un frammento di cornice in terracotta con gorgoneion, un piccolo idolo alato con l'iscrizione kronos in greco, alcuni mattoni con bolli laterizi e un vaso con l'impronta di un piede. Purtroppo va segnalato che nel corso degli anni, per incuria o asportazioni, sono andati distrutti molti mosaici pavimentali.
Nei dintorni della villa vanno indicati altri edifici di pertinenza a essa. Il primo sorgeva sul capo Mattea, il promontorio che col capo Castello cinge cala dell'Alga. E' stato ipotizzato che esso fosse la pars rustica della villa, ovvero il quartiere di pertinenza delle servitù dei ricchi patrizi. Di esso oggi non rimane alcuna traccia.
Il secondo, a 450 metri dalla villa, è la cisterna di colle del Lentisco, che garantiva l'approvvigionamento idrico alla casa. Di essa è rimasta la parte inferiore (la cisterna vera e propria), ma non è visitabile in quanto proprietà privata e incorporata in un edificio moderno. Secondo la una ricostruzione planimetrica di Vincenzo Mellinila parte superiore era in forma di grazioso tempietto.
Dai pochi elementi venuti alla luce possibile datare la fondazione della domus alla seconda metà del I secolo a. C. Essa sarebbe quindi coeva a molte di quelle presenti nell'arcipelago, compresa quella delle Grotte, vicino Portoferraio. Impossibile sapere invece chi furono i proprietari, che scelsero questa affascinante plaga per il loro otium.
Dagli esami stratigrafici è evidente una seconda fase in et tiberiana (prima metà del I secolo d. C.), in cui la villa fu interessata da ristrutturazioni e rifacimenti. Lo scempio edilizio moderno ha lasciato poche tracce di essa (soprattutto tratti di muro in opus testaceum), tanto che ciò sono pareri discordanti sulla sua fine e il successivo abbandono dell'edificio: secondo alcuni questo è da collocare alla fine del I secolo, mentre altri lo attestano alla prima metà del II.
Ma la vita della villa non era destinata a cessare. Come le altre domus elbane e alcune dell'arcipelago, Capo Castello conoscer una frequentazione tardoantica: tra il IV e il VI secolo piccole comunità umane ristrutturarono alcuni vani del complesso di capo Mattea per viverci. In questo periodo infatti l'Italia conosce il fenomeno del monachesimo, moda importata dall'Oriente: coloro che vi si dedicavano fuggivano dalla corruttela e dalle mollezze delle città per ritrovare il contatto con una vita parca. Quale simbolo migliore di una villa patrizia allo sfacelo? La loro presenza è testimoniata da sepolture rinvenute da Mellini.
E' forse a opera di questi primi monaci la fondazione della vicina chiesa di San Mennato (oggi non più esistente). Sempre Mellini infatti afferma che per la costruzione di essa venissero impiegati alcuni materiali sottratti alla villa, in particolare quattro colonne di ornamento alla facciata.
Con il definitivo abbandono su Capo Castello scese l'oblio. Quei ruderi furono interpretati in diversi modi dalla gente, e alcuni vi videro perfino i resti di una leggendaria città romana, Faleria. Purtroppo non fu dimenticata dai cercatori di tesori, che conclusero l'opera di spoliazione e devastarono alcune parti. E' anche questa una spiegazione sulla penuria di reperti fino a oggi recuperati.
Finalmente è al termine dell'Ottocento che venne iniziata una ricerca sistematica sul sito, a opera dello storico elbano Vincenzo Mellini. Egli spazzò via tutte le panzane che fino ad allora avvolgevano Capo Castello: Chiunque è pratico, anche mediocremente, di queste materie, vede che le rovine che ingombrano Capo Castello non sono gli avanzi di una città , fosse pur piccola, ma di una grandiosa villa romana, dalla quale i fabbricati del Capo di Mattea e del Colle del Lentisco non erano che necessarie appendici. A tutt'oggi il suo studio, le ricerche e i disegni ( andata per perduta una preziosa planimetria della struttura) sono l'opera più completa sul sito, avendo avuto la fortuna di poterci lavorare quando non era stato ancora aggredito dalla spinta edilizia.
Da allora nessuno rimase sensibile all'importanza della zona e fu concesso di costruirvi sopra, arrecando spesso danni irrimediabili. In tempi recenti, tra il 1970 e il 1972, solo un saggio archeologico di Gianfranco Vanagolli ha permesso di portare un po' più di luce sulla pianta della villa.
Abituati a considerarla come una località turistica moderna, spesso ciò dimentichiamo che Cavo ha avuto un passato molto antico. Sfruttando il fatto di essere l'approdo più vicino al continente e di trovarsi a due passi dalle miniere di ferro, questa località ha visto un fervore umano ed economico fin dai tempi antichi. La presenza di un'abbondante attività fusoria (un quartiere metallurgico antico è stato scoperto non molti anni fa) copre l'epoca etrusca e romana.
Nel seconda metà del Novecento poi sono molti i ritrovamenti subacquei davanti al suo porto, segno di un intenso traffico mercantile. E per tutto il secolo reperti sparsi si sono susseguiti nei suoi dintorni.
Tutto ciò ha fatto supporre a qualcuno che non fosse un caso se qui nacque una villa patrizia: forse i proprietari, oltre che goderla come luogo di otium, vi curavano anche qualche attività economica della zona.