Si trova sulla vetta di una collina di 352 metri, dominante sulle miniere di ferro riesi. L'ambiente è ancora molto selvaggio: i fianchi dell'altura sono completamente coperti di un manto di leccete rigogliose, a parte il versante meridionale, sventrato dai gradoni degli scavi minerari. La vista dal forte è spettacolare su 360: un bellissimo colpo d'occhio si ha sul canale di Piombino, punteggiato dagli isolotti di Palmaiola e Cerboli, e sulla costa toscana, dal promontorio di Populonia a quello dell'Argentario. Inoltre la vista si spinge fino all'isola del Giglio, e copre una buona parte del versante orientale dell'Elba.
Si raggiunge facilmente: dalla strada provinciale della Parata, che congiunge Rio nell'Elba a Cavo, si stacca un sentiero (segnalato in loco e sulle cartografie con il numero 59), che in meno di mezz'ora ciò porta ai piedi dei suoi bastioni. Il fondo del tracciato è buono, ampio e in leggera salita. Anche in estate offre poche difficoltà, perché completamente sotto un'alta vegetazione.
L'accesso è libero e semplice, ma occorre avere il massimo rispetto delle strutture che vanno velocemente degradandosi in attesa di un impellente restauro.
Il castello è oggi fortemente diroccato per motivi che vedremo nel capitolo storico. Originariamente si presentava in forma rettangolare, con un torrione che poggiava su una base cinta da mura a scarpa. L'opera era completamente circondata da un fossato secco.
Il torrione, o maschio, aveva mura con cordolo e base a scarpa, e l'ingresso si apriva a nord. Era formato da tre piani con soffitto a volta. Da un piano all'altro, scrive Coresi del Bruno, si andava per mezzo di certe piccole scale fabbricate vicino alle mura di dentro, e senza parapetto et assai strette, si crede fatte così ad arte. Il terrazzo scoperto della torre, forse protetto da una merlatura, serviva principalmente ad accendervi fuochi di segnalazione. In ogni piano si aprivano un numero variabile di finestre, ma sembra che il versante più vigilato fosse quello che guarda il mare e le miniere. Attualmente proprio il maschio la parte che ha subito i peggiori danni: di essa si eleva il solo muro orientale, per quanto fortemente pericolante, e parte della base.
Un po' meglio è messa la cinta esterna: solo due spezzoni (angolo nord-ovest e lato sud) sono crollati. Essa si presenta con una muraglia a scarpa non altissima, il cui perimetro interno è protetto da una cortina in cui si aprono feritoie. Sul lato orientale si trova l'ingresso principale, salvatosi per miracolo dallo sfacelo circostante. Si tratta di un'apertura ad arco, di non grandi dimensioni, protetta dal ponte levatoio e guardata anch'essa da feritoie. Sull'altro lato del fossato è presente il basamento di appoggio del ponte levatoio.
Fonti anche recenti ricordano che sopra l'ingresso era affisso lo stemma marmoreo degli Appiani, poi caduto nel fossato. Pare che sia stato rubato nel 1967.
Le fonti erudite sette-ottocentesche danno credito all'esistenza di una struttura più antica di quella che vediamo oggi, pur mitizzando molto la sua origine (c' chi disse che quassù sorgesse un tempio dedicato appunto a Giove, chi un faro romano). Per quanto non peregrina l'ipotesi che vi potesse sorgere un luogo di controllo più antico (magari un oppida etrusco), attualmente tutto ciò rimane nel campo delle congetture.
L'attuale forte ha un periodo di costruzione preciso: sotto il principato di Jacopo III Appiani. E' ormai opinione diffusa che l'anno di fondazione sia il 1459. Scrive Gianfranco Vanagolli: [Il forte], da annoverarsi tra gli esempi più illustri di architettura militare minore tardomedievale dell'intera Toscana per la sua solidità e per il rigore delle proporzioni, rifletteva la personalità di Jacopo III d'Appiano, un signore [dall']animo risoluto e talora spietato [...].
Oltre che per funzioni di vigilanza sul mare e le miniere, Torre del Giove doveva servire come luogo di rifugio per gli abitanti di Grassera, paese vicino al castello e oggi non più esistente. Tuttavia non sempre riuscir a svolgere il ruolo di sentinella sicura contro i pericoli corsari, come il vicino Volterraio.
E' il caso dello sbarco all'Elba di Barbarossa nel 1534. Il borgo di Grassera fu assalito nella notte, devastato, saccheggiato, e molti dei suoi abitanti trascinati alle navi pirata in ceppi. Quelli che riuscirono a scappare alla Torre del Giove non poterono far altro che assistere impotenti alla distruzione delle loro case. Da allora Grassera cesserà praticamente di esistere.
Ancora peggio andò nell'invasione del 1553. Questa volta i turchi erano guidati dal temibile allievo di Barbarossa, Dragut. Come nelle invasioni precedenti, parte dei riesi sciamò con i pochi beni nel castello. Questo fu subito preso d'assedio. Il primo attacco, asserisce Giuseppe Ninci, fu agevolmente sventato con un massiccio fuoco dagli spalti. Gli assedianti, convintisi che la resa del castello non sarebbe stata cosa facile, concentrarono gli sforzi e l'artiglieria sul forte per tre o quattro giorni con una massiccia potenza di fuoco.
Il motivo della capitolazione è per un mistero. Secondo Ninci i cannoneggiamenti furono così devastanti sulle mura che il comandante della piazza fu costretto alla resa. Marcello Squarcialupi invece la imputa alla viltà dello stesso comandante che, a suo giudizio, poteva ancora resistere. Altri vogliono che Dragut, nella difficoltà di espugnarlo, agisse d'astuzia. In ogni caso sappiamo che il comandante della piazzaforte patteggi con il capo nemico la resa in cambio della libertà degli occupanti, e il pirata, una volta spalancatesi le porte, rinnegò la promessa.
Il 19 settembre 1554 alcuni magonieri del ferro di Firenze, guidati da Giovan Francesco di Campiglia e spediti a lavorare nelle miniere riesi, chiesero e ottennero di poter abitare nella fortezza del Giovo, affine non siano preda di qualche corsale. E anche questo la dice lunga sul clima di insicurezza di quegli anni.
Quando nel 1603 fu edificata la piazzaforte spagnola di Longone, gran parte delle torri dell'isola, compresa la nostra, fu presidiata da guarnigioni iberiche. Ovvio quindi che Torre del Giove subisse gli eventi legati agli assedi della piazza principale. E' il caso dell'invasione francese del 1646. Prima di dare l'assalto a Longone, i transalpini espugnarono le difese minori. Nel caso del forte riese, la cui guarnigione era in buon numero e ben equipaggiata, l'assalto and a vuoto, e per tre giorni l'assedio non dette risultati. Racconta Ninci che i francesi alzarono assai vicino a questa fortezza della terra come se da questa si partisse una mina per far saltare in aria; e dato ad intendere agli spagnoli, che, se avessero tardato a rendersi l'avrebbero incendiata; questi, spaventati da tale annunzio subitamente capitolarono. Evidentemente Torre del Giove aveva il maledetto destino di cadere solo per inganno.
Nel 1708 un nuovo assedio a Longone interessò la nostra torre. Ma qui è interessante annotare ciò che successe al termine dell'evento bellico. Dopo aver liberato la piazza spagnola dalla morsa nemica, il comandante Pinel de Moroy, convintosi che gli isolani avessero tenuto un contegno troppo collaborazionista col nemico, per rappresaglia decise di smantellare molte delle loro opere difensive. Tra queste vi fu il nostro forte. E' in gran parte per questa ragione se la sua struttura è così fortemente rovinata. A ciò si aggiunga l'abbandono all'incuria del tempo e dell'uomo, che da allora Torre del Giove si è trovata a subire, in attesa di un sempre più urgente restauro.
Come unico evento saliente negli ultimi tre secoli, alcuni vogliono che Napoleone, durante l'esilio, mostrasse interessamento per riattare il castello e farne una sua dimora. Il progetto sarebbe rimasto sulla carta per mancanza di fondi.
E' difficile spiegare l'origine del nome della torre. Alcuni vogliono che pi che dalla divinità pagana, il toponimo derivi dal latino jugum, ovvero vetta. In effetti solo oggi è conosciuto più comunemente come Torre del Giove, ma tutte le fonti storiche e i documenti antichi lo citano come il castello del Giogo.
Intorno il forte fior una leggenda nel XVII secolo, secondo la quale in esso vi erano imprigionati, per poi essere uccisi, gli amanti della reggente del principato di Piombino Isabella Mendoza, che dopo averli lasciati li faceva evirare e trarre in catene.