Nel VIII secolo a. C. inizia a muoversi nel centro Italia una nuova civiltà, la cui cultura raffinata era in forte discontinuità con quelle protostoriche fino allora dominanti. Essa si chiamò rasenna, i greci la chiamarono tirrena, e i romani etrusca. La nuova società dovette farsi largo in uno scacchiere mediterraneo polarizzato intorno ai greci e alle loro numerose colonie. Ma il controllo di una risorsa quale il ferro, che pochi altri posti potevano offrire per quantità e qualità come l'Elba, fu decisiva per l'ascesa al ruolo di potenza. Fu probabilmente in questo contesto che l'estrazione del rame isolano and perdendo via via importanza per cedere a una richiesta tumultuosa del più pregiato metallo. A questo corrispose un'accelerazione del commercio: non è difficile credere che nei porti elbani giungessero navi e mercanti da tutto il Mediterraneo.
Non sappiamo quando avvenisse la prima estrazione del ferro elbano, anche perché le escavazioni industriali degli ultimi due secoli hanno probabilmente compromesso ogni studio archeologico delle aree estrattive. già nel VI secolo a. C. si trova il minerale isolano in diversi luoghi del Tirreno, ma l'attività deve essere iniziata almeno nel secolo precedente. Sulle ingenti quantità nacquero anche dicerie, come quella che voleva il minerale autorigenerantesi.
Il primo processo di riduzione del ferro avveniva già all'Elba, come testimonia Diodoro Siculo. Inizialmente (VIII-VI secolo a. C.) furono utilizzati bassiforni detti catalani, in pratica delle buche poco profonde nel terreno, rivestite da argilla refrattaria. Potevano raggiungere una temperatura massima di 900 C. Dal VI secolo a. C. furono sostituiti dagli altiforni, una struttura cilindrica, alta meno di due metri, anch'essa in materiale refrattario. Con l'altoforno si toccavano anche i 1300 C, non abbastanza per fondere il ferro, ma sufficienti a eliminare buona parte dei silicati. Le scorie ferrifere (anche di epoca romana e medievale), dagli elbani chiamate schiumoli o rosticci, si trovano un po' ovunque sull'isola, ma sono solo una minima parte di accumuli anche notevoli, che furono asportati nel corso del Novecento per essere passati alla moderna fusione industriale: infatti le scorie contenevano ancora una buona percentuale di ferro. Gli etruschi, a causa ovviamente dei limiti tecnologici dell'epoca, non riuscirono ad andare oltre un 60% di sfruttamento del tenore di ferro dei minerali (l'ematite, soprattutto). Tuttavia la loro perizia siderurgica fu maggiore di quella dei romani, che li seguirono, e che non superarono il 40%.
Nel V e IV secolo a. C. troviamo un'Etruria in declino. Infatti la sua forza sui mari e non solo era mal gradita dalle altre potenze mediterranee, Siracusa su tutte. A pagare le conseguenze più pesanti di questa crisi era l'Elba, in quanto motore economico della potenza etrusca. In questo periodo si annotano alcune devastanti incursioni siracusane: soprattutto quella di Apelle, alla metà del V secolo a. C., che guidò una flotta di 60 trireme contro le coste tirreniche. ciò sono buone probabilità che, seppur per un breve periodo, l'isola e le sue ingenti risorse minerarie siano passate sotto il dominio dei siciliani. In ogni caso, o per sfruttamento diretto, o per via commerciale, o per pirateria, i siracusani dimostrarono sempre il massimo interesse per il giacimento elbano.
Per questa ragione gli etruschi dovettero architettare una rete difensiva sull'isola. Ogni punto strategico fu interessato da fortezze di altura, dette oppida, in grado di rimanere in contatto ottico fra di loro. All'interno di esse in molti casi si svilupparono piccoli abitati. Attualmente di queste strutture se ne ha diverse tracce, sparse soprattutto nell'isola centro-occidentale[1]
A parte queste costruzioni, degli etruschi all'Elba rimane molto poco. Rare tracce di altri villaggi, magari costieri o a ridosso delle aree minerarie, che pure dovevano esistere, considerando l'attività economica e commerciale che viveva l'isola in quel periodo. Diversamente abbiamo diverse testimonianze di sepolture[2], sebbene molte di esse siano andate perse o disperse dopo la scoperte, avvenute per la maggior parte nel corso dell'Ottocento.
arrivò il tempo che anche gli etruschi dovettero cedere spazio a nuovi dominatori. E coloro che colpirono a morte questa straordinaria civiltà furono degli ex sudditi, non più propensi a sottomettersi al governo altrui: i romani. L'Elba entrò nella loro sfera di influenza non proprio pacificamente. Lo studio archeologico delle fortezze d'altura isolane ha dimostrato che tra il 280 e il 260 a. C. esse furono distrutte e date alle fiamme. Tuttavia i romani le riattiveranno, ed esse continueranno a vigilare sulle coste per almeno un altro secolo: evidentemente lo stato di insicurezza dei mari nel corso delle guerre puniche costrinse i romani a tenere le difese dei propri territori costantemente alte.
I romani chiamarono l'isola Ilva, da cui deriva il nome attuale mutuato dal medievale Ilba. Non è ben chiara la scelta di questo toponimo: secondo la tradizione deriverebbe dai fantomatici ilvates, una stirpe di origine ligure che avrebbe colonizzato l'isola in tempi antichissimi.
In età repubblicana troviamo le miniere elbane ai massimi livelli di produzione. E non può essere altrimenti, dato che lo sforzo bellico dei nuovi dominatori era altissimo. Non è anzi azzardato dire che buona parte dei successi romani di questa fase sia stata costruita con il ferro elbano. Dopo il boom dei secoli II e I a. C. si assiste a una crisi estrattiva, che porterò da l a uno o due secoli alla totale cessazione dell'attività. Molte sono le risposte degli studiosi per spiegare questa situazione: forse con l'acquisizione di nuove miniere (in Spagna, nel Norico, etc.) i romani preferirono spostare l'estrazione, mantenendo quelle italiane come riserve strategiche; o forse venne a mancare il carbone per l'attività fusoria, dopo che questa aveva spogliato inesorabilmente il manto boschivo isolano; o altre ragioni ancora.
Il rumore di mazze e scalpelli non cessò del tutto: terminata l'estrazione del ferro, i romani dettero l'avvio all'escavazione del granito. Con questa pietra si potevano realizzare eleganti opere, utilizzate per adornare i monumenti: colonne di granito elbano si trovano in molti edifici della capitale è dell'impero. Tracce di cave e manufatti[3], spesso confuse a quelle di epoca medievale, sono visibili nelle località di Cavoli e Seccheto.
Un po' per i prodotti locali (va probabilmente aggiunto anche il vino tra le merci esportate dall'isola), ma soprattutto per la sua posizione geografica, l'Elba si trovò al centro di un florido commercio marittimo. Soprattutto dopo la celebre spedizione di Gneo Pompeo, nel I secolo a. C., tesa a liberare i mari dalla pirateria, i traffici navali ebbero un'impennata. I suoi approdi sicuri e riparati, come il Portus longus (l'attuale Porto Azzurro) citato anche nella Tabula Peutingeriana, erano la tappa per diverse rotte: quelle da e per i porti di tutto il Tirreno, della Gallia e della Spagna, delle isole mediterranee e del Nord Africa. Manufatti da tutti questi luoghi si trovano sul suolo dell'Elba, ma ancor di più sui suoi fondali, racchiusi come in scrigni da numerosi relitti[4].
Per quanto più numerose di quelle etrusche, anche tra le testimonianze romane manca un tassello: non si conoscono la dislocazione e la consistenza dei centri urbani in questo periodo. C'è solo un'eccezione: Fabricia, l'attuale Portoferraio. In realtà Fabricia è un nome derivato più dalla tradizione erudita settecentesca che dalla realtà, ma ciò non toglie che sul promontorio che abbraccia una riparata darsena esistesse un abitato vitale. Esso visse un boom economico, favorito sicuramente dai commerci navali, durante l'età imperiale. Pare che l'abitato vero e proprio sorgesse intorno alla darsena, mentre nella parte alta delle colline retrostanti trovassero posto i sepolcreti. Talmente ricco è il patrimonio archeologico di questa area che dalla fondazione della piazza medicea fino ai giorni nostri, non avvengono lavori nel suolo della città che non ciò regalino qualche manufatto antico. Per il resto è buio completo, e solo i nomi di alcuni paesi rimangono a prova di un'origine romana: è il caso di Capoliveri (Caput liberum), Marciana (Marcius o Marcianus) e Rio nell'Elba (Rivus). Ancora una volta ciò vengono in soccorso le necropoli a ricordarci la frequentazione umana di alcune località. La più importante è quella del Profico (dal toponimo eloquente), a Capoliveri.
A cavallo del I secolo a. C. e il I d. C., all'Elba, come in tutto l'arcipelago, sorgono lussuose ville patrizie. E' una riscoperta turistica dell'isola, dopo la crisi delle attività estrattive e metallurgiche. Alcuni ricchi romani scelgono l'Elba per il loro otium. A differenza delle altre isole, per, non rimane nessun riferimento sui loro proprietari. Forse uno di essi fu il prefetto di Adriano, Acilio Attiano, di cui rimangono molti indizi sull'isola (come un'ara in granito dedicata a Ercole). Di queste domus rimangono tracce di tre[5], ma non è detto che fossero di più.
Queste ville ebbero fasi abitative diverse (relativamente brevi le Grotte e Capo Castello, un po' più articolata la Linguella), ma tutte sono accomunate da una frequentazione tardo antica. Infatti anche all'Elba assistiamo nei secoli IV e V al fenomeno del monachesimo, importato dall'Oriente. L, in quelle isole gettate da Dio come una collana di perle sul mare, scrive sant'Ambrogio nell'Hexameron (IV secolo), si rifugiano coloro che vogliono sottrarsi all'incanto dei piaceri disordinati; l, essi fuggono al mondo e vivendo in un'austera meditazione, si sottraggono alle insidie di questa vita. [...] Il rumore misterioso delle onde si confonde col canto degli inni; mentre i marosi vanno a frangersi con dolce mormorio sulla spiaggia di queste isole fortunate, salgono al cielo i pacifici accenti del coro degli eletti. E quale posto migliore da occupare per questi monaci se non le ex ville simbolo della vita agiata. Sono i loro canti che accompagnano l'Elba nel momento della fine dell'impero.